mercoledì 21 marzo 2007

Revisionismo e ricerca storica

Ho trovato in rete quest'articolo molto interessante di un docente, prof. Angelo D'Orsi, del quale mi ha parlato molto bene una mia collega dottoranda. Ogni tanto capita alle riunioni, dice. Speriamo, mi sembra davvero in gamba. Volevo parlare di revisionismo, ma credo che sia meglio far parlare qualcuno che davvero se ne intende. Da notare che il prof. Melograni di cui parla era nostro docente a scienze politche, momentaneamente sostituito da Biocca, suo allievo (e non a caso l'affare Silone...), perchè oramai impegnato in politica fra le file di Forza Italia. Io ho dovuto leggere un suo libro agghiacciante, "La modernità e i suoi nemici" in cui faceva il panegirico di tutte le migliorie apportate dalla rivoluzione industrial-capitalista....brrrr

Sì, sembrerà lungo vista l'impaginazione del blog, ma ne vale la pena....

"Rovescismo, fase suprema del revisionismo"

Chi sospetta che le ambizioni del giornalista Pansa siano di tipo politico, può ritenersi accontentato, sia pure col beneficio del dubbio: il «caso» è diventato un problema di ordine pubblico, dopo gli insulti e le baruffe a Reggio Emilia tra giovani di sinistra che contestavano Pansa e giovani di destra che ne prendevano le parti e intervento finale della polizia. Sarebbe tuttavia un errore isolare Pansa: ormai si deve parlare di tutta una categoria di «rovistatori» della Resistenza, che grattano il fondo del barile per vedere dove si annidi (eventualmente) il marcio, e anche se non c'è, lo si inventa, lo si amplifica, e lo si sbatte in prima pagina. Che questa operazione sia fatta senza alcun criterio storico, senza le cautele minime di qualsivoglia studioso, poco importa. Se gli autori di libri di tal fatta, vendono, troveranno editori disposti a scommettere su di loro, media pronti a parlarne (e come si fa a non parlarne?), e un pubblico via via più incuriosito.
Una categoria inesauribile
Ma anche i rovistatori della Resistenza rientrano in una categoria più ampia, che sembra inesauribile e dalla quale ci dobbiamo aspettare altre puntate, sempre più clamorose. Noi sappiamo bene che esiste una differenza essenziale tra la revisione, momento irrinunciabile del lavoro del ricercatore storico, e il revisionismo, che possiamo definire come l'ideologia e la pratica della revisione programmatica. Se l'una ha un valore eminentemente storiografico, l'altro si colloca in un ambito sostanzialmente politico: qual è infatti il compito dello storico? Quello, nobile e problematico, di accertare la verità dei fatti, sulla base dei documenti («pas de documents, pas d'histoire»: senza documenti non c'è storia, ci ha insegnato la grande tradizione metodologica francese). I documenti vanno opportunamente trattati, onde accertarne l'autenticità, la provenienza e la veridicità (esistono documenti autentici che raccontano frottole e documenti falsi che dicono verità), opportunamente «interrogati» e «sollecitati» (consiglio al riguardo ai sedicenti «storici» dalle trecentomila copie, la lettura dell'ultimo libro di Carlo Ginzburg: Il filo e le tracce), e infine interpretati. In tal modo, sulla base della scoperta di nuove fonti - documenti fino ad allora sconosciuti - o del perfezionamento di tecniche di ricerca, o dell'emergere di sensibilità nuove, si procede a quell'incessante lavoro di «revisione», che è anima del lavoro storiografico. La conoscenza che così si può raggiungere è il prodotto collettivo di individui singoli e di intere generazioni; tutti coloro che fanno ricerca possono portare i loro mattoni a questo edificio, correggendo, integrando il già costruito, o facendo salire il livello della costruzione, piano dopo piano.
Comiche rivelazioni
Ma il revisionismo vuole invece pregiudizialmente «rivedere», possibilmente in modo drastico, le conoscenze acquisite, partendo dal presupposto che quello che abbiamo appreso finora siano «bugie»: sintomatico in tal senso il titolo dell'ultimo Pansa (La grande bugia) o quello del recente pamphlet di Melograni (Le bugie della storia), nel quale apprendiamo una serie di comiche «rivelazioni» partorite tutte dalla fertile inventiva dell'autore: da Marx che «ignorava il mondo del lavoro» a Hitler che «non voleva la guerra». Con questi due esempi - non sono certo gli unici - siamo oltre il revisionismo: siamo in pieno «rovescismo». Che può essere definito come la fase suprema del revisionismo stesso. Volete assicurarvi il successo in un pubblico vasto e ingenuamente appassionato di storia? Bene. Basta prendere un fatto noto, almeno nelle sue grandi linee, un personaggio importante, un episodio che ha costituito un momento variamente epocale…
I comunisti menzogneri
Poi si afferma che tutto quello che sappiamo in merito è una menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata sull'occultamento; di solito, responsabili delle menzogne e dei nascondimenti della verità, sono «i comunisti», da Gramsci fino ai suoi pronipoti, con un particolare accanimento su Togliatti. Che viene presentato, spesso e volentieri, egli stesso come un soggetto storico su cui esercitare l'arte speciosa del rovesciamento, e come ispiratore delle trame storiografiche negatrici della verità, infine rimessa a posto dai Pansa e sodali. Dunque, se quello che si sa è menzogna, si tratta di costruire una «verità alternativa». E più si spara alto, più si allarga il bacino d'utenza. I Borboni erano illuminati, Cavour un pedofilo, Garibaldi un maniaco, i partigiani assassini…
Un filone d’oro
Quest'ultimo filone è il cavallo di battaglia di Pansa, la sua gallina dalle uova d'oro. Senza alcun rispetto per i più elementari principi del lavoro storiografico, egli sta ormai perseguendo da anni un sistematico rovesciamento di giudizio sul '43-45. Naturalmente, ciò non sarebbe possibile senza editori che sollecitano libri di tal genere, libri che rovescino quello che si sa… altrimenti chi lo compra un altro libro sulla Resistenza? Dall'alto delle loro centinaia di migliaia di copie, i rovescisti irridono agli accademici pignoli, magari «invidiosi» del loro successo, i quali (udite, udite!) vorrebbero le note a piè di pagina. Ma le note non sono altro che la possibilità offerta al lettore di verificare quello che scriviamo, se non vogliamo rimanere nel regno della fiction: chi ci legge deve poter fare il nostro stesso percorso, al limite andando a frugare negli stessi archivi dove noi abbiamo lavorato, e controllare se ci siamo inventati i documenti, o li abbiamo alterati… Per i rovescisti questa è inutile noiosaggine professorale. Dobbiamo fidarci del loro intuito, o - come Pansa procede - delle loro ricostruzioni fatte sulla base di racconti altrui, o di «travasamenti» di libri in altri libri. Così Benedetto Croce, che molti decenni or sono denunciava le «pseudostorie». Nulla di nuovo sotto il sole, in un certo senso. Per raccontare la storia non basta scrivere, perdipiù con il ricorso furbesco a un piano di comunicazione che mescola l’invenzione narrativa (se così vogliamo chiamarla) e la pretesa di «raccontare i fatti»: per tal via ogni contestazione di metodo e di merito è impossibile. L'autore ha la risposta pronta. Se lo becchi in castagna ti può sempre rispondere che la sua è «libera ricostruzione», e che non si può pretendere l'esattezza.
Vogliono solo far colpo
Il problema è che la storia, quella vera, mira precisamente alla maggiore esattezza possibile, in quanto scienza, il cui compito è avvicinarsi in uno sforzo continuo alla verità. I rovescisti vogliono fare colpo, vendere libri, far parlare di sé. E ci riescono. Quel che è grave è il risultato del loro «lavoro»: una totale perdita di significato della storia, e la nascita di una specie di senso comune nel quale c'è posto per tutti, trasformando l'arena della ricerca in un infinito talk show, una situazione in cui la ricerca diventa opinione (avete detta la vostra, ora diciamo la nostra), e tutte le opinioni hanno la medesima legittimità. Tutto viene equiparato, e le ragioni degli individui sono confuse con le ragioni delle cause per cui si battono. Norberto Bobbio ammoniva i revisionisti con una domanda rimasta senza risposta: «E se avessero vinto loro?». Se avesse prevalso il nazifascismo, insomma? Davvero la causa dei resistenti può essere equiparata a quella dei «ragazzi di Salò»? Il «sangue dei vinti»?! E quello dei partigiani? E quello degli italiani mandati al macello da Mussolini? Con questa deriva pseudostorica, insomma, tutto si può dire, impunemente. Non concordo con la contestazione dei giovani a Pansa: i rovescisti continuino pure a scrivere quello che certi editori chiedono, ma, per favore, non chiamatela «storia».

La Stampa, 18-10-2006

7 commenti:

Anonimo ha detto...

insomma, il buon D'Orsi non condivide le contestazioni a Pansa, ma penso che da quel che scrive un par de schiaffi glieli tirerebbe pure lui (e vivaddio!).

comunque bell'articolo. D'altronde anch'io distinguo bene tra revisione e revisionismo (specie per quel che riguarda l'Unione Sovietica! ;))

Anonimo ha detto...

immagino che sull'Unione Sovietica si tratti di revisionismo ideologico infondato...ovviamente

Anonimo ha detto...

Bell'articolo. Sì, sì. Vorrei solo capire che cosa avrebbero dovuto fare i partigiani secondo Pansa, ma questa è un'altra storia

Anonimo ha detto...

Sull'Unione Sovietica di solito si usano argomenti frusti che, nei fatti,
sono strumentalizzazioni per una demonizzazione inutile primancora che
approssimativa, come se fosse oggi (a quasi ventanni dalla caduta del muro)
ancora un "pericolo".
E' il rovescio della medaglia dell'invettiva "comunisti!" lanciata da
destra, e d'altra parte la prova provata che un fantasma continua ad
aggirarsi per l'Europa.
Col fallimento dei sistemi socialisti così come furono realizzati nel corso
del secolo scorso si vuol buttare via la stessa possibilità che l'ordine
sociale venga ancora una volta capovolto, tanto che il pensiero stesso di un
rovesciamento dei paradigmi politici viene frustato prima di tutti dagli
stessi militanti di sinistra in nome di non si sa che (democrazia?
liberalismo? snobismo?).

Così che si taccia di ideologia gli altri usando argomenti ASSOLUTAMENTE
ideologici, cioè volendo adattare la realtà al proprio convincimento,
anziché viceversa.

vero è che il "terrore" dell'Orso Rosso bilanciava lo strapotere del
capitalismo non soltanto a livello di dialettica geopolitica mondiale, ma
anche filosofica e economica, cosicché l'idea attraente per le masse di
prendere il potere "in proprio" ("e come in Russia si deve Fare") veniva
temperata da politiche di welfare che ridistribuivano il benessere nei
sistemi capitalisti, in un'ottica tollerata dai poteri economici solo in
funzione difensiva.

Tanto è vero che, crollata quell'esperienza (giustamente o no non mi
interessa farne oggetto di dibattito, qui si va nel campo delle opinioni e
delle preferenze personali), abbiamo assistito all'erosione dei diritti dei
lavoratori (e di conseguenza dei cittadini), alla precarizzazione del lavoro
(e di conseguenza della vita), alla escrescenza di guerre continue (a quante
operazioni militari ha partecipato l'Italia dal 45 al 91 e a quante dal 91 a
oggi?), all'annullamento delle differenze politiche nella dialettica
democratica... solo per dire alcune cose.

E con un'altra, miserabile, controindicazione come il rovescismo descritto
bene da D'Orsi. Siamo in epoca di piena restaurazione e le prime vittime
siamo noi stessi, incapaci di pensare un sistema diverso da quello attuale,
spesso impegnati più a sopravvivere e elemosinare un lavoro e più spesso
impegnati a dirci che "tutto è (stato) inutile", comunque sempre dietro i
soloni sbagliati.

Siamo in epoca di piena restaurazione, dicevo, ma la speranza è che nemmeno
la Restaurazione potè arginare a lungo l'onda lunga della Rivoluzione
Francese. Le cui idee, dette per inciso, presero la strada del bonapartismo.

patti ha detto...

sono colpevole del ritardo della pubblicazione del commento, scusa!

grazie dell'impegno, cavoli, non volevo scatenare sta controffensiva. Ti risponderò fra un po', per ora dico solo che in parte hai ragione, ma non capisco perchè chi condanna l'unione sovietica necessariamente deve essere vittima della Restaurazione e non può pensare di voler cambiare le cose. Non è vero che chi condanna l'esperienza del comunismo reale non vorrebbe un cambiamento radicale dell'ordine sociale. questo mi dà molto i nervi, perchè non c'è SOLO il comunismo che vuole il cambiamento. Mi ha sempre dato fastidio questa cosa che i comunisti si arrogano il ruolo di rivoluzionari. ma davvero credi che non ci sia una alternativa auspicabile tra liberismo e Unione sovietica?

vabbè, ci vorrebbe un post per rispondere...

Anonimo ha detto...

Mica ho detto questo, anzi... dico che condannare il comunismo
(nell'accezione più ermeneutica della sua concezione leninista cioè la presa
del potere), con CERTI argomenti equivale a condannare la volontà di
cambiare in modo radicale la società. La rivoluzione, di qualsiasi segno
sia. Il comunismo, come ideologia o se vogliamo come proposta e
organizzazione politica e economica non c'entra niente, se non in minima
parte con quello che ho detto sopra.
Mica ho detto che ci rivuole stalin o breznev, per carità di dio! Oppure che
più soviet (e più elettricità) siano il futuro! (ste cose le dico solo dopo
il terzo bicchiere di rosso).
Ma una cosa non va, proprio non mi va di quel che dici: è la parola
"condanna". La Storia non si condanna, non si biasima, non si rinnega (anche
se si vorrebbe). Bisogna avere il coraggio di farci i conti, studiarla per
capire alla fine di essere condannati (stavolta sì!) solo a ripeterne gli
errori. Perché alla fine siamo uomini e come tali fallaci.

Condannare l'Unione Sovietica è un esercizio tanto facile quanto inutile e a
mio parere sommamente ideologico.

Per tornare al punto: non credo che l'alternativa sia tra liberismo e Unione
Sovietica. Non lo è oggi e certamente non lo sarà in futuro. Il comunismo è
morto come esperienza statuale da vent'anni, e come realizzazione marxista e
rivoluzionaria forse dagli anni trenta.

credo però che le idee alla base della teorizzazione marxiana del comunismo
siano tutt'ora valide: disuguaglianza, oppressione, classi sociali,
dialettica storica ed economica.
Anche perché Marx di suo si è inventato ben poco. e sarà ancora con quei
propellenti che si alimenterà un futuro motore per il cambiamento. Non si
chiamerà comunista, forse si chiamerà Pino o Mario, ma nascerà sotto le
ceneri delle macerie dell'Unione Sovietica e di confrontarsi con
quell'esperienza (per superarla, certamente) non potrà fare a meno.

Spero perdonerai la mia caparbietà nel tenere il punto e gli sbadigli
causati da questa discussione. Prometto che al terzo straveccio di trippa
ricomincerò a fare brindisi al Gotha del socialismo reale :D

Anonimo ha detto...

Hai perfettamente ragione nel dire che con la storia bisogna fare i conti, e non condannarla tacendone qualisiasi analisi. è lo stessa cosa che diceva De Felice sul fascismo, bisogna studiarlo a fondo, capirne i motivi etc ed è troppo comodo "condannare".

In realtà nella voglia di condannare si nasconde l'urgenza della sinistra democratica di sbarazzarsi di certe critiche mosse da taluni personaggi (e io uno lo conosco bene, ahimè) alla propria identità che non le permetterebbe la legittimazione di forza politica democratica. Anche se il parallelo storicamente non regge (perchè in Italia non è stata una repubblica socialista!), è un po' quello che accade alla destra con il fascismo. In fondo nel suo piccolo anche il fascismo intendeva fondare un "uomo nuovo" e aveva una sua ideologia, una sua visione peculiare del mondo. E credo che in parte quella visione sia amcora condivisa da molti militanti di destra. Vogliamo affermare che questi valori sono intrinsecamente antidemocratici? allora dobbiamo togliere la cittadinanza politica alla destra più conseguente(madò, sembro Paolo Vinti), esattamente come si vuol fare con la sinistra estrema per i suoi conti col comunismo. Qualcuno sostiene infatti che anche i valori in nome dei quali è nata l'unione sovietica portino in se stessi il germe della dittatura. La "condanna" dunque è solo uno strumento per poter sostenere quelle istanze sottolineando l'estraneità delle stesse da un regime totalitario, per avere la possibiltà di continuare a sostenerle, per dare ad esse vigore e capacità di attrazione. Ma il punto è che è uno strumento politico, e non bisognerebbe confondere il giudizio storico con l'opportunismo politico.

Siccome però, come dice anche d'Orsi, il più delle volte si fa "storia da talk show", stiamo attenti a non cadere nella trappola di chi ce l'ha tesa e non diamo ulteriori argomenti a 'sta gente.

Tutto questo discorso però, porta alla conclusione che hai ragione tu sul "rovescismo" anche nei confronti dell'Unione sovietica, dando per scontata - immagino - il disprezzo di alcuni diritti (che non sono nè borghesi nè ellenistici ne pincopallinistici) come il diritto alla vita ed avere opinioni politiche divergenti.
che non sono assolutamente da mettere in secondo piano, assolutamente no. partiamo dalle libertà negative e su queste costruiamo quelle "positive". E questi saranno pure argomenti da faciloni, sì, probabilmente il tuo discorso va molto più a fondo,ed è apprezzabile, ma si rischia di diventare un po' elitari e accademici (da che pulpito...), e vista la complessità del tema in oggetto e che ancora non si possono dare giudizi sereni o almeno condivisi, fermiamoci anche su questi aspetti facii facili, su cui il giudizio è ovvio. ma non basta mai ripeterlo. Poi passiamo pure a un altro livello...

un'altra cosa però...lo sollevo come un dubbio....ma perchè dobbiamo noi italiani fare i conti con la storia di un paese cosi diverso dal nostro? è necessario? (questa è di Furio Colombo, non mia....lo confesso)allora è vero che i comunismo è necessariamnte Urss?

cmq grazie per i commenti, davvero. mi piacciono queste discussioni, non mi provocano sbadigli, tutt'altro. Certo l'immagine di te che brindi al Gotha del socialismo reale è tutta un'altra goduria...