venerdì 4 giugno 2010

Impressioni dal pianeta Wilco. Live all’Auditorium Parco della Musica, Roma, 30 maggio 2010.

Mancano pochi minuti all’inizio del concerto e finalmente la nostra piccola spedizione perugina a Roma approda non senza qualche ansia all’auditorium Parco della Musica. Quale posto migliore per ascoltare i Wilco dal vivo? Abituati come sono ai loro mille strumenti e a suonare solo in posti dove l’acustica sia ottima, che permettano alla loro audience sofisticata di apprezzare le più piccole sfumature strumentali, l’auditorium di Renzo Piano è lo scenario perfetto, ma ci lascia fin da subito un piccolo amaro in bocca. I Retribution Gospel Choir, il gruppo spalla, vengono trattati piuttosto male; suonano mentre il pubblico sta ancora arrivando, con le luci accese e il fastidioso brusio di sottofondo di chi proprio non riesce a filarseli troppo. Vanno via con le facce di chi si è stancato di non essere ascoltato; un vero peccato.


Non passa davvero molto che salgono sul palco i nostri eroi: quasi tutti con un look da perfetto country man che si trova a passare di lì per caso (Tweedy indossa un’improbabile camicia a quadri nero-azzurra e dei jeans nero-scolorito tendente al grigiastro un po’ troppo stretti sulle sue gambe); tutti eccetto il batterista che fa innamorare le donzelle – come nella giocosa “Heavy Metal Drummer” – Glenn Kotche, che sfoggia una camicia rossa da danzatore di tango, che verrà rapidamente inzuppata del suo sudore da bravura cosmica alla batteria. Iniziano con una scaletta tanto perfetta quanto scontata. L’ho detto fin da subito ai miei compagni di avventura – apriranno con Ashes of american flage così è, per continuare sciorinando cinque delle loro canzoni più belle, quasi dei classici intramontabili: brividi mi percorrono durante l’esecuzione della youngiana “You are my face”, ballad dalle sonorità oniriche che sembrano calarti in un’America d’altri tempi descritta magari nelle pagine di qualche romanzo di Roth o Faulkner.


Non è facile, parlare di un live dei Wilco per me. Chi non li conosce o magari li ha ascoltati distrattamente, giusto per farsi un’idea su chi siano questi musicisti di Chicago di cui si parla tanto bene, non potrà capire la mia entusiastica descrizione. Se dovessi parlare del mio primo concerto visto a Firenze qualche mese fa, ripeterei per più volte la parola “incredibile”. Non immaginavo più di rimanere così estasiata a un concerto rock. Rock, chiamiamoli così, anche se di etichette per i Wilco ce ne sarebbero tante e di azzeccate, tanto hanno cambiato durante la loro lunga carriera, declinata in ben 7 dischi in studio (se escludiamo l’esperimento Mermaid Avenue con Billy Bragg e il live Kicking Television). Dopo aver visto un loro concerto, cambia il metro di giudizio. Improvvisamente tutto quello che hai visto prima ti sembra bello, ma imperfetto: i suoni, l’ensemble, il coinvolgimento, l’armonia sonora, qui, sono di un altro livello.


Sono una grande band: “band” e non creatura di un leader: anche se Tweedy leader lo è, ma senza tutti gli altri non sarebbe lo stesso. Occorre parlare degli assoli e delle manie di Nels Cline, uomo proveniente da non so quale galassia, che non sbaglia nulla nei suoi virtuosismi anche scomposti: spesso si lascia andare a tipiche mosse da guitarist old style, imbraccia la sua chitarra elettrica o coccola la slide-guitar e le fa vibrare all’infinito producendo suoni irreali; bisogna parlare del già citato Glenn Kotche, ma non per la sua bellezza, ma per la sua mostruosa bravura, sfoggiata soprattutto durante l’esecuzione della delirante “Via Chicago”: quando parte la tempesta sonora di chitarre e batteria, dalla platea si avverte un brusio, somma di vari rumori emessi dalla bocca a far uscire segnali di stupore; c’è persino chi ride dall’incredulità. Ma anche il polistrumentista Pat Sansone è eccellente, alternandosi all’organo e alla chitarra elettriche, e a tutto ciò che occorre, fino alle maracas. Chiudono il cerchio il bassista John Stirratt, altro veterano – è con Tweedy dagli Uncle Tupelo - sulle cui sagge spalle a mio parere si regge questa prodigiosa ensemble, e il tastierista Mikael Jorgensen dalle cui dita partono suoni indispensabili.


Parte “A shot in the arms” e a questo punto le poltroncine iniziano a vibrare: non ce la facciamo più, ma stretti fra la voglia di esplodere e il rispetto verso chi ascolta ma anche verso chi suona (chissà se il caso di alzarsi, in fondo lo scelgono loro di suonare in questi teatri-auditorium) rimaniamo ancora incollati al velluto rosso delle scomode poltroncine. Ancora seduta, assisto inerme allo spettacolo incredibile di “Via Chicago”, al consueto ma strepitoso assolo di Cline su “Impossible Germany” e il mio pensiero è che non posso rimanere ferma lì, questa volta no, se lo meritano troppo quei tipi trasandati che suonano con tanta passione e perizia, da quel palco senza lustrini, fin troppo semplici per essere veri. È anche questo che fa amare i Wilco: loro non hanno nulla delle rockstars, nonostante ormai il loro successo sia planetario (sono in tour per il mondo da un anno e continuano a collezionare date e sold out un po’ ovunque) sembra davvero che suonino per gli amici sotto casa e la voce di Tweedy sembra una corda sfilacciata e fragile che da un momento all’altro si spezzerà. “Passion is a word… but is like an obsession for me”diceva Jeff Tweedy riferendosi alla musica in un’intervista alla CBS tempo fa; un’ossessione vitale, a cui devo dire grazie. Glielo devo, mi devo alzare per fargli sentire tutto il mio calore ed entusiasmo. Ma per fortuna è proprio il frontman a darci la giusta spinta: chiacchiera più che a Firenze Jeff, anche se pochi lo capiscono nel suo americano biascicato, e fingono di ridere a qualsiasi parola da lui proferita. Si rivolge a un distinto signore seduto di fronte a lui in prima fila “Si sta addormentando? Se vuole può leggere il giornale”, gli dice; e ci esorta ad alzarci; sempre davanti al nostro posto però, un po’ come dai banconi delle Chiese durante la messa, per il rituale coro di “Jesus Etc” – anche questa volta mezzo riuscito. Poi ci esorta Tweedy a sederci di nuovo: “ci sono ancora un bel po’ di brani”, come a dire non vorrete mica stancarvi? Ci guardiamo tra di noi e la decisione è presa, dopo la successiva “You never know” ci alzeremo: pronti, via! Prima al lato del palco; appena alzati attacca “Hate it here”, brano rock-blues che come nelle migliori tradizioni di genere parla di un uomo disperato senza la sua donna, seguito da “Walken” altrettanto se non più rockeggiante, condito dai riff di Cline alternati alla voce: tutto insieme il pubblico non si tiene più e conquistiamo le avanguardie, con le mani sul palco a battere forte il ritmo, mentre saltelliamo all’impazzata. Il volto di Tweedy a pochi metri da me si anima, prende a sorridere, ed è questa comunione fra band e pubblico che rende l’esibizione speciale, ciò che era mancato al Teatro della Pergola a Firenze, e che mi fa pareggiare il bilancio con quello, che preferivo fino a quel momento per scaletta e raccoglimento. Da lì in poi è il delirio; tolto il rituale show di Kotche che sale in cattedra… ops, batteria per l’inizio di “I’m the man who loves you” – ributtandosi giù in maniera spettacolare a batterci sopra le bacchette – il bis è totalmente stravolto: da una “California Stars” in cui vengono chiamati sul palco i bistrattati Retribution Gospel Choir, che riscatteranno così la deprimente esibizione di un paio d’ore prima, alle ultime due canzoni cambiate in corsa rispetto alla scaletta; via “Hummingbird”(sigh!) e “On and on”, la follia sotto il palco esige un finale che si tinga di sonorità più movimentate, e allora ecco spuntare dal cilindro del vastissimo repertorio wilchiano “Hoodo Woodo” (da quel gioiello di canzoni scritte da Woodie Guthrie che è “Mermaid Avenue”) e la beatlesiana “I’m a wheel”, in cui si svolge un duello fra le due chitarre elettriche di Cline e Sansone.


“Good Night”. È già finito? Non abbiamo nemmeno il tempo e la fantasia di gridare ad un altro bis che compaiono gli uomini neri dell’auditorium illuminati a giorno. “Non ci proviamo neanche?” dice il mio amico, e la mia delusione è evidente. Già finito, cavolo. Già?!? Hanno suonato quasi due ore e mezza, ventisei canzoni, e io dico “già finito”. “Ma non hanno fatto un mucchio di canzoni bellissime”. C’è da giurarci, visto il loro repertorio. “A quando il prossimo?” mi chiedo, mentre ricordo che all’andata avevo detto “E dopo questo basta fino al prossimo disco”. I Wilco, ve lo assicuro, danno assuefazione, e non sono l’unica a sostenerlo. Me ne vado via con la mia scaletta strappata all’uomo nero che ci dice “E’ ora di andarvene! E portatevi via i foglietti”. Di già. Sempre così coi Wilco, non ne hai mai abbastanza